domenica 9 novembre 2008

Recentemente ho pubblicato anche ...


Rassegne pubblicate su Liquida Magazine:
16 ottobre: Arrivano i videogiochi creati con YouTube alcuni utenti smanettoni di YouTube, sfruttando la possibilità di inserire nei filmati annotazioni e commenti, hanno trovato il modo di creare dei videogame, dei TubeGame, ci si passi il neologismo. Un viaggio tra alcuni dei meglio riusciti tra questi atipici videogiochi e tra le relative reazioni della blogosfera
18 ottobre: OpenOffice, la nuova versione dell’alternativa gratuita ed open a Microsoft Office il progetto, giunto ormai al suo ottavo anno di vita, è nato per iniziativa della Sun, che ha reso pubblico e libero il codice sorgente di StarOffice.
23 ottobre: Second Life è morto? Forse no Dopo anni da fenomeno mainstream, oggi Second Life appare in crisi, tanto che c’è chi si preoccupa per lo stato di salute del più famoso mondo virtuale. Un approfondimento con le opinioni della blogosfera.
27 ottobre: The Linux Day after, le reazioni della blogosfera Abbiamo cercato nella blogosfera impressioni a caldo sull’ultimo Linux Day. Ecco il resoconto di una manifestazione di successo.
31 ottobre: Riprende il volo Italia.it, lo “scandalo italiano” del Web In occasione dell’ultimo SMAU l’annuncio del ritorno di Italia.it, il portale che avrebbe dovuto promuovere l’attività turistica italiana. La presenza di numerosi bug, di accertate vulnerabilità ad attacchi di tipo Cross-site scripting e le notizie circa il costo dell’opera (45 - 58 milioni di euro) avevano portato ad un movimento di protesta e alla sua chiusura. Le opinioni della blogosfera.
3 novembre: La blogosfera e la mania dei Facebook party Si moltiplicano i Facebook party, eventi per conoscere nel mondo reale i propri contatti di Facebook. In Italia il primo incontro di questo tipo risale, probabilmente, allo scorso 16 luglio, quando a Milano, presso il Bar Bianco del Parco Sempione, migliaia di iscritti al social network bianco e blu si incontrarono. Ecco tutta la storia e le opinioni della blogosfera.
5 novembre: Si apre il sipario su Windows 7: novità in vista Nonostante la giovane età di Windows Vista, Microsoft pianifica già il rilascio di una nuova versione del suo sistema operativo. Ecco tutte le anticipazioni su Windows 7 presentate al Professional Developer Conference di Los Angeles con, come sempre, i pareri della blogosfera.


Post pubblicati su TuxJournal:
14 ottobre: Installazione OpenSuse 11.1 Beta 2 passo dopo passo descrizione dell'installazione della seconda beta release della nuova distribuzione GNU/Linux di OpenSuse
20 ottobre: La prigione dorata di Mac OS X il sistema operativo dei computer della Apple è blindato, come molti altri prodotti della casa di Cupertino
24 ottobre: Il Venezuela adotta il formato ODF la repubblica sudamericana aderisce alla comunità dei Paesi che adottano lo standard documentale libero
5 novembre: Google Chrome: per Linux proviamo CrossOver Chromium prova su strada del browser di Google in ambiente GNU/Linux
6 novembre: Con il software libero si può fare business il software libero non è gratis e offre interessanti possibilità di sviluppo economico

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lunedì 3 novembre 2008

Open Source in Europa e negli USA: due mondi a confronto


Dal 21 al 24 settembre scorsi si è tenuto, a Parigi, l'Open Source Think Tank Europe. Definire semplice conferenza un think tank è riduttivo: si tratta, infatti, di un “serbatoio di pensiero”, nel quale più persone, indipendentemente dalle loro propensioni politiche o ideologiche, si occupano essenzialmente di produrre informazioni oggettive e previsioni da analizzare per studiare l'andamento di un fenomeno. Sarà, poi, compito degli analisti trarre le conclusioni del lavoro scaturito dal “serbatoio”.
Ospite e osservatore di questo evento è stato Larry Augustin, del quale ho parlato in un mio recente post; due parole possono descrivere il personaggio meglio di una biografia: Sourceforge.net. Larry, infatti, è il cofondatore di Sourceforge, ossia del massimo deposito mondiale di software libero e aperto. Attualmente si occupa di venture capital e siede in numerosi consigli di amministrazione di aziende che producono software open source.
Nel suo blog, Larry descrive quelle che sono le principali differenze tra la percezione che si ha del software open source in Europa e negli Stati Uniti; le sue impressioni, che non hanno alcuna pretesa scientifica, sono derivate dall'esame di numerosi punti di vista, e sono ricavate dalle opinioni di un gran numero di partecipanti all'evento parigino.
Innanzitutto, perché adottare software aperto? Gli Americani, nel loro pragmatismo, ne fanno una questione di costi, mentre in Europa si cerca di evitare un produttore che possa imporre tecnologie proprietarie e chiuse. Così nel Vecchio Continente le linee guida che portano alla realizzazione di software open source commerciali sono legate alla creazione di un'industria del software indipendente dalle grandi software house del Nuovo Continente, mentre negli Usa è la disponibilità di quantità di capitali di ventura che porta al nascere di realtà open source. Ricordo, incidentalmente, che il fatto che un software sia libero e aperto non implica che sia gratuito: è infatti la licenza che non costa nulla, mentre i servizi aggiuntivi possono essere a pagamento.
Da questo diverso atteggiamento deriva, probabilmente, la chiusura europea alla brevettabilità del software, considerato, a mio avviso giustamente, opera d'ingegno e, in quanto tale, non brevettabile. Non dimentichiamo, infatti, i diversi e reiterati tentativi lobbistici per spingere l'Unione Europea a instaurare un sistema di brevetti sul software. Ma questa è un'altra storia, che esula dal tema odierno.
Continuiamo nella disamina delle differenze; anche nell'uso di un sistema a doppia licenza Europei e Americani si dividono: per i primi, infatti, non siamo di fronte a un vero prodotto aperto, ma solo a un mezzo per fare marketing e pubbliche relazioni, mentre di là dall'oceano è considerato il più comune modello di business per il software open source. In questo caso la posizione europea mi sembra sia più integralista di quella americana: un esempio, forse, potrà meglio chiarire il mio pensiero. Sun Microsystem ha acquisito, nella scorsa primavera, la Innotek, azienda tedesca produttrice di VirtualBox, software commerciale di virtualizzazione. Di questo prodotto ne esistono due versioni: una, proprietaria, che è gratuita per studio e uso personale, e una libera, assoggettata alla GNU GPL, sprovvista di alcune funzionalità (la prima che mi viene in mente è il mancato supporto alle periferiche USB). Questa politica della doppia licenza è preesistente all'acquisizione a opera di Sun, quindi è probabile che la versione commerciale fosse la principale fonte di sostentamento economico di Innotek, senza la quale, forse, sarebbero mancate le risorse per la realizzazione della versione libera.
Anche sui canali di vendita le due sponde dell'Atlantico divergono: gli Europei pensano che il principale strumento di commercializzazione sia il canale dei rivenditori, mentre gli Americani prediligono la vendita diretta; vendita sì, ma di cosa? Per gli Europei il core business deve essere basato sulla fornitura di servizi e supporto all'installazione e all'uso, quindi su formazione, customizzazioni, realizzazione di soluzioni integrate, manualistica e simili. Le aziende statunitensi, invece, non credono molto nella fornitura di servizi e preferiscono focalizzarsi sul prodotto, con la commercializzazione di estensioni proprietarie, e quindi closed source, o la realizzazione di versioni enterprise affiancate a quelle libere.
Anche le aspettative su prodotti software open source sono diverse: in Europa un produttore di software aperto rilascerà solo codice open, affidando la gestione del reticolo degli sviluppatori a una comunità di supervisione, mentre negli Usa non sarà necessariamente così, coesistendo, nella stessa azienda, software liberi e software proprietari; il coordinamento dei progetti sarà affidato alla direzione commerciale.
Non dimentichiamo, infatti, che il software open è realizzato, migliorato e aggiornato da comunità di sviluppatori, anche di grandi dimensioni. Molti di questi sono volontari, molti altri sono stipendiati dalle aziende; in tutti i casi, per evitare l'anarchia, è necessario che ci siano delle linee guida da seguire, anche se non sono disincentivate le iniziative individuali. Eric Raymond, in La cattedrale e il bazar, contrapponeva un modello di sviluppo gerarchico, tipico delle grandi software house (la cattedrale), a uno più reticolare, basato sulla creazione di comunità di sviluppatori che seguissero la realizzazione e lo sviluppo del software (il bazar). Il modello a bazar puro è, forse, troppo anarchico e, quindi, soprattutto nelle realtà maggiori e più complesse, è necessaria una comunità di supervisori che indirizzi lo sviluppo.
Dopo aver raccolto queste impressioni, Larry Augustin trae le sue conclusioni: l'Europa, ma anche il resto del mondo, hanno una concezione più avanzata della filosofia Open Source rispetto a quella americana. Negli Stati Uniti la natura aperta del software è quasi irrilevante nelle decisioni d'acquisto delle aziende, quello che conta è il costo. I compratori americani cercano il miglior rapporto qualità/prezzo; l'apertura del codice e la sua accessibilità non hanno, quasi, interesse.
In Europa il concetto è più raffinato: intendiamoci, non è che costi e prestazioni siano ininfluenti, ma si riconosce che è la natura aperta del software a permettere questi vantaggi.
Alle conclusioni di Larry Augustin vorrei aggiungere le mie: costi, prestazioni, indipendenza da soluzioni proprietarie, uso di formati standard, possibilità di accesso al codice sorgente e, perché no, anche sviluppo di risorse locali sono i principali motivi che hanno spinto, e spingono, numerose amministrazioni e aziende europee, sia pubbliche che private, all'adozione di software open source; tutti i giorni si ha notizia di nuove migrazioni, sia parziali che totali, a soluzioni software libere e aperte.
Credo di essere facile profeta nel ritenere che l'open source sarà uno dei motori dello sviluppo economico europeo nei prossimi anni.

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lunedì 13 ottobre 2008

Questa settimana ho pubblicato anche ...


Rassegne pubblicate Liquida Magazine:
8 ottobre: Il guru Stallman attacca Google e il cloud computing: il cloud computing attaccato da Stallman, ma non solo.


Post pubblicati su TuxJournal:
6 ottobre: Nathive, free software per il fotoritocco: per il momento è solo un concept di software per il fotoritocco che, però, presenta interessanti novità, come ad esempio la possibilità di aprire immagini diverse in schede.
7 ottobre: Ubuntu 8.10 Intrepid Ibex: anteprima del nuovo setup: prova su strada della procedura di installazione di Ubuntu 8.10.


Post pubblicati su Shannon.it:
12 ottobre: Adesso i videogiochi si creano con YouTube: come usare i filmati di YouTube per realizzare videogame. La Linea, Eusebio e il gattino Sparta i primi eroi di questa nuova tendenza.
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domenica 12 ottobre 2008

Ogni lunga marcia inizia con un piccolo passo

Le mie prime frequentazioni con Gnu/Linux risalgono al 2002 e, devo dire, non furono esaltanti. Per prova decisi di installare una distribuzione, la SuSe 8.0, su un personal computer già allora piuttosto obsoleto: si trattava di un Pentium II con clock da 400 Megaherz, 256 Mbyte di Ram e un paio di hard disk da una decina di Gbyte ognuno.
Impiegai un paio di giorni per installare il tutto e un altro paio per rendere il PC visibile nella rete aziendale. Installazioni, disinstallazioni, imprecazioni, telefonate al servizio assistenza trasformarono questa impresa in un percorso ad ostacoli, ma che soddisfazione quando, improvvisamente, come per magia tutto prese a funzionare in modo perfetto. Il vecchio PC volava ... si è spento definitivamente la scorsa primavera, dopo un onorato servizio di quasi dodici anni.
La mia esperienza mi portò a una semplice considerazione: chiunque poteva usare Linux, l'interfaccia grafica non era poi così diversa da Windows, ma per installarlo occorreva essere “bravi”: l'installazione del sistema, la sua configurazione e la messa a punto erano operazioni non semplici, non alla portata dell'utente ordinario (quello che, con brutto termine, è chiamato “l'utonto”). La maggior parte dei programmi si installavano per compilazione dei sorgenti, e, abbastanza spesso, ci si addentrava nella giungla delle dipendenze: per installare il software X occorreva la libreria Y che, a sua volta cercava il software Z, per installare il quale mancava W, insomma un vero incubo.

Gli utenti di Gnu/Linux erano membri di una specie di setta segreta, poco mancava che, quando si incontravano, si salutassero con gesti segreti e rituali, quasi come framassoni tecnologici.
Negli anni successivi la situazione, per fortuna, è migliorata di molto. Quasi tutte le distribuzioni Gnu/Linux più diffuse hanno tool di installazione e manutenzione che semplificano le cose e quasi tutti i pacchetti software sono installabili utilizzando i formati RPM o DEB e i relativi gestori (ad esempio APT, Yast o Urpmi), che risolvono in maniera quasi perfetta i problemi di dipendenze.
Oggi l'installazione di Linux richiede una mezzoretta e modeste conoscenze tecniche, almeno nelle distribuzioni più diffuse, come Ubuntu, Opensuse o Fedora. Nel dubbio, per non sbagliare basta accettare le impostazioni proposte dall'installer.
In questi ultimi tempi, poi, si è verificato un evento che nel 2002 sarebbe stato impensabile: la vendita di PC, laptop e netbook con Linux preinstallato. Un muro è stato abbattuto e si è rotta l'equazione Personal computer = Windows; poco importa che MSI dichiari che i clienti restituiscono quattro netbook con Linux per uno con Windows XP. L'utente comune, infatti, è un conservatore e, quando incontra qualcosa che non conosce, corre a rifugiarsi tra le accoglienti braccia dell'immortale sistema operativo dalle finestre colorate.
Il mercato, signore e padrone delle scelte dei produttori, sta reagendo positivamente, tanto che Canonical ha portato sugli scaffali dei grandi magazzini una scatola contenente Ubuntu 8,04, altro evento che sei anni fa sarebbe stato impensabile.
Non dimentichiamo, poi, che Linux fa funzionare una bella fetta dei server che assicurano la gestione di Internet (solo Google ne ha mezzo milione, tutti con sistema operativo Gnu/Linux), è stato adottato da amministrazioni pubbliche e governi, suscita un costante interesse e si sta apprestando a sbarcare anche sui telefonini
Da pochi giorni Linux è entrato nel suo diciottesimo anno di vita e, finalmente, si sta avviando a uscire dall'adolescenza per diventare adulto. Questo è il tempo trascorso dal messaggio con il quale Linus Torvalds annunciava, in un newsgroup, di aver iniziato i lavori per un nuovo sistema operativo. Era la tarda estate del 1991.

Hello everybody out there using minix -
I'm doing a (free) operating system (just a hobby, won't be big and professional like gnu) for 386(486) AT clones. This has been brewing since april, and is starting to get ready. I'd like any feedback on things people like/dislike in minix, as my OS resembles it somewhat (same physical layout of the file-system (due to practical reasons) among other things).
I've currently ported bash(1.08) and gcc(1.40), and things seem to work. This implies that I'll get something practical within a few months, and I'd like to know what features most people would want. Any suggestions are welcome, but I won't promise I'll implement them :-)

Linus (torva...@kruuna.helsinki.fi)

PS. Yes - it's free of any minix code, and it has a multi-threaded fs. It is NOT protable (uses 386 task switching etc), and it probably never will support anything other than AT-harddisks, as that's all I have :-(.

È vero che ogni lunga marcia inizia con un piccolo passo ma sarebbe interessante sapere se il ventunenne Linus Torvalds intuiva cosa avrebbe scatenato il suo messaggio: "Ciao gente! Per hobby ho incominciato a scrivere un sistema operativo" ... secondo me nemmeno nelle sue più sfrenate fantasie immaginava tutto questo.

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lunedì 6 ottobre 2008

Questa settimana ho pubblicato anche ...


Rassegne pubblicate Liquida Magazine:
2 ottobre: Web 2.0 e Internet sociale: occhio al futuro. Le imprese emblema del web 2.0, il web fatto dai contenuti degli utenti, sono state sopravvalutate? Anche loro faranno la fine delle dot com del primo web?


Post pubblicati su TuxJournal:
2 ottobre: Alcune interessanti novità dal pianeta OpenOffice.org: uscita della RC3 di OpenOffice 3.0, Quarta conferenza italiana di OpenOffice.org, organizzata dal PLIO, varie ed eventuali.
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sabato 4 ottobre 2008

Business e Open Source: si può!

Alcuni giorni fa mi sono imbattuto in un post che ha suscitato in me un profondo interesse. L'incontro con Larry Augustin e il suo weblog è stato casuale, quasi un caso di serendipità. Non stavo cercando nulla di particolare, ma solo leggendo parte della mia dose quotidiana di feed RSS quando, in mezzo a notizie di vario argomento, un titolo mi ha colpito: "Commercial Open Source in Europe Versus the US", che ho tradotto liberamente con "Business e Open Source: differenze tra Stati Uniti ed Europa". Il post in questione è stato pubblicato sul Larry Augustin's weblog il 23 settembre.
L'argomento ha immediatamente destato il mio interesse perché solo di rado mi è capitato di leggere (e quasi mai in italiano) articoli e post che descrivessero l'aspetto commerciale del software libero e aperto. Non meravigli l'associazione tra il diavolo (lo sfruttamento commerciale) e l'acqua santa (il software libero e aperto): in Italia, ma anche in buona parte del mondo, si è diffusa l'inesatta idea che il Free Software e l'Open Source, per il fatto di essere liberamente distribuibili, siano gratuiti. Non è questa la sede nella quale discutere delle differenze tra software libero e aperto, per le quali vi rimando a un altro mio post (Open Source o Free Software), ma una disamina del problema della gratuità del software mi sembra d'obbligo.

In un suo saggio, dal titolo Perché "Software Libero" è meglio di "Open Source", Richard Stallman scrive alcune frasi illuminanti, soprattutto sui rapporti che intercorrono tra i due movimenti:

«… La differenza fondamentale tra i due movimenti sta nei loro valori, nel loro modo di guardare il mondo. Per il movimento Open Source, il fatto che il software debba essere Open Source o meno è un problema pratico, non un problema etico.

Siamo in disaccordo sui principi di base, ma siamo più o meno d'accordo sugli aspetti pratici. Perciò possiamo lavorare ed in effetti lavoriamo assieme su molti progetti specifici. Non vediamo il movimento Open Source come un nemico. Il nemico è il software proprietario.

La definizione ufficiale di "software open source," come pubblicata dalla Open Source Initiative, si avvicina molto alla nostra definizione di software libero; tuttavia, per certi aspetti è un po' più ampia, ed essi hanno accettato alcune licenze che noi consideriamo inaccettabilmente restrittive per gli utenti. Tuttavia, il significato ovvio di "software open source" è "puoi guardare il codice sorgente".

Ma la spiegazione di "software libero" è semplice: chi ha capito il concetto di "libertà di parola, non birra gratis" non sbaglierà più. ...».

In questo quadro si vede come, al di là dell'etica, i due movimenti siano apparentati; dall'analisi delle quattro libertà del software libero e dei dieci punti della Open Source Definition (per i quali vi rimando al mio già citato post), poi, si evince che i due movimenti condividono almeno due concetti: il software deve essere liberamente distribuibile e il codice sorgente deve essere pubblico in modo che ognuno possa consultarlo e modificarlo. E qui ci possiamo porre una domanda imbarazzante: il software è libero, i sorgenti sono a disposizione di tutti, e quindi chi ci lavora, chi lo crea, chi lo migliora perché lo fa, se non ne può ricavare un utile? Forse lo fa per la gloria? O forse perché è un benefattore dell'umanità ed è ricco di suo?
Logica conseguenza di queste considerazioni è che un modello di sviluppo basato sull'assoluta gratuità del software non può fare molta strada: chi scrive codice "tiene famiglia", come tutti, e, come tutti, ha bisogno di mangiare, quindi deve essere possibile realizzare un modello economico che contemperi la libertà di diffusione del software e i fabbisogni "alimentari" degli sviluppatori.
Il segreto sta tutto nell'ultima frase citata poco sopra che, in lingua originale, suona "free speech, not free beer", una sorta di scioglilingua basato sui due diversi significati che, nella lingua inglese, assume la parola "free": "libero" e "gratis", Indubbiamente la traduzione italiana è molto meno efficace della frase originale, ma credo ci siano pochi dubbi sul suo significato, dubbi che possono essere fugati andando a leggere la definizione di Free Software data dallo stesso Stallman nelle pagine delGnu Operating System:
«...Free software is a matter of liberty, not price. To understand the concept, you should think of "free" as in "free" speech, not as in "free" beer...».
La traduzione ufficiale italiana recita «Il Software libero è una questione di libertà, non di prezzo. Per capire il concetto, bisognerebbe pensare alla "libertà di parola" e non alla "birra gratis"», ed è nuovamente evidente che, nella nostra lingua, la confusione tra le parole "libero" e "gratis" non esiste.
Nello stesso documento, poi, appare un'altra affermazione, a maggior chiarezza di tutto il concetto:
«... Software libero non vuol dire non-commerciale. Un programma libero deve essere disponibile per uso commerciale, sviluppo commerciale e distribuzione commerciale. Lo sviluppo commerciale di software libero non è più inusuale: questo software commerciale libero è molto importante...».

Come si può sfruttare commercialmente un software la licenza d'uso del quale, per definizione, non può essere venduta? Semplicemente proponendo e vendendo servizi a valore aggiunto; un esempio? Canonical ha distribuito, nei negozi della catena Best buy, confezioni contenenti il CD di Ubuntu 8.04, una guida e la possibilità di attivare un servizio di supporto della durata di sessanta giorni, il tutto al prezzo di 19,99 dollari.
Altri servizi a valore aggiunto possono essere la consulenza, la formazione, la manualistica, l'installazione e la messa a punto del software, le personalizzazioni per usi o scopi particolari e simili. È ovvio che se non ho bisogno di assistenza per l'installazione, so usare il software, non ho voglia di leggermi i manuali, non necessito di personalizzazioni e mi scarico i Cd di installazione dal web non devo pagare nessuno, a meno che non decida di fare una donazione.
Questo è il modello di business collegato al free software, ed è sulla diversa percezione di questo modello che si ha sulle due rive dell'Atlantico che Larry Augustin ha scritto il suo post.
A questo punto ritengo sia indispensabile spendere due parole di presentazione su Larry Augustin, nome, forse, sconosciuto ai più. Per farvelo meglio conoscere ne traccio una breve biografia: negli anni Ottanta è consulente, sviluppatore e amministratore di sistemi Unix e, in queste vesti, lavora anche per AT&T Bell. Nei primi anni Novanta si dedica allo sviluppo di Bison++, generatore di analizzatori sintattici compatibile con il linguaggio C++, consegue un dottorato di ricerca alla Stanfordf University e, assieme a James Vera, fonda VA Linux, azienda che ha lo scopo di sfruttare il valore commerciale del software libero. Nel 1999 l'azienda cambia nome e diviene Sourceforge,net, il massimo deposito mondiale di progetti software liberi e aperti (nella primavera del 2007 ospitava oltre 140.000 progetti), Lasciata la sua creatura, Larry Augustin, cui non difetta il talento imprenditoriale, si dedica al venture capitalism e investe in aziende produttrici di software: oggi siede nel consiglio di amministrazione di Fonality, Hyperic, Medsphere, Pentaho, SugarCRM e XenSource. In aggiunta a tutto ciò, non si può dimenticare che il nostro è stato, nel 1998, uno dei fondatori della Open Source Initiative, assieme a Perens, Raymond, O'Reilly e altri.
Visti i suoi trascorsi e le sue esperienze, credo di poter affermare serenamente che quando Larry Augustin parla (o scrive, come in questo caso) di software Open Source, beh, occorre seguirlo con attenzione, ed è proprio quello che faremo nei prossimi giorni.

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martedì 30 settembre 2008

Questo mese ho scritto anche ...

Poiché sembra che abbia un sacco di cose da dire, sto scrivendo articoli e post un po' dovunque; per questo motivo ho pensato di indicare qui, con cadenza settimanale, le mie pubblicazioni. Il post avrà titolo, sempre, "Questa settimana ho scritto anche ..." e conterrà i link ai parti della mia tastiera.


Ecco i post usciti su TuxJournal:
11 settembre: Rilasciato VirtualBox 2.0: le novità, sull'ultima versione del sistema di virtualizzazione di Sun Microsystem, del quale esiste anche una versione Open Source;
16 settembre: Tim Berners-Lee, la World Wide Web Foundation e Internet ovunque: l'iniziativa del padre del web per raggiungere l'ottanta per cento della popolazione mondiale;
16 settembre: Speciale TuxJournal: anteprima di OpenOffice.org 3.0, sulla base della RC1 le novità della popolare suite di programmi per l'office automation;
26 settembre: gPhone: e alla fine arriva l’HTC Dream G1, due parole sul telefonino marcato Google;
29 settembre: La Linux Foundation si apre agli utenti e da adesso è possibile anche ai privati affiliarsi alla Linux Foundation e contribuire allo sviluppo del kernel del sistema operativo Gnu/Linux.


Ho scritto anche su Shannon, continuando quella che è una collaborazione che dura ormai da tempo. Ecco i miei interventi usciti nell'ultimo mese:
29 agosto: Siate temperanti, vigilate, sulle note vicende che hanno portato all'oscuramento temporaneo di Pirate Bay in Italia;
5 settembre: Google Chrome demolito fino alle fondamenta, non proprio una demolizione (il titolista di Shannon ha un po' esagerato) ma una prima disamina critica sul browser di Google.



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lunedì 29 settembre 2008

Liquida Magazine

Affezionati lettori, da qualche tempo ho iniziato a collaborare con Liquida Magazine, magazine online del gruppo Banzai, sul quale pubblico delle rassegne blog con commento su argomenti di attualità.

Ho pensato di farvi cosa gradita segnalandovi i miei articoli.

Non sapete cos'è il gruppo Banzai? è il quarto operatore italiano su Internet, dopo Telecom, Wind e Editoriale L'Espresso, e gestisce siti come Studenti.it, Altervista, ePrice e Officinedellarete.
Una premessa. La blogosfera, ossia l'insieme dei blog e dei diari online dei navigatori del web, è un oceano all'interno del quale si trova di tutto: contenuti interessanti o imbarazzanti, casti o decisamente hard, cazzeggi o discussioni serie. In questi fiumi di parole (e mi torna in mente una canzone che vinse il festival di San Remo nel 1997 ... chissà che fine ha fatto il duo dei Jalisse che la interpretava) che scorrono attraverso il web è difficile non solo navigare, ma anche orientarsi.
Ecco che entra in gioco Liquida: il progetto è ambizioso. Stiamo parlando di un aggregatore di contenuti che si mantiene costantemente aggiornato esplorando continuamente i quasi cinquemila blog che, a oggi, ne fanno parte. Un motore di intelligenza artificiale permette, indicando una o più parole chiave, di estrarre risultati significativi che soddisfino la curiosità del lettore.
A fianco di Liquida ecco il magazine che, cogliendo fior da fiore, presenta articoli che riportano le opinioni, spesso contrastanti, dei bloggers italiani su un determinato argomento. Insomma un progetto tutto italiano per far emergere contenuti e per aiutare i meno esperti a navigare. Se volete saperne di più su Liquida non mi resta che rimandarvi all'ottimo articolo di John Madero "Liquida.it: il santo graal per la blogosfera italiana?" pubblicato su Shannon.
E torniamo al principio, cioè ai miei articoli pubblicati su Liquida Magazine, nella sezione Tecnologia. Eccoli:
16 settembre: A Small World, il social network più esclusivo della rete, sul network che vanta tra i suoi iscritti quindicimila direttori generali, tremilacinquecento laureati ad Harvard e i rampolli di alcune delle più eminenti famiglie del jet set. Un club esclusivo al quale si accede sole se invitati.
18 settembre: A combattere il digital divide arriva la WWW Foundation: Tim Berners-Lee, ideatore del World Wide Web crea una nuova fondazione la missione della quale è quella di annullare il digital divide.
23 settembre: Codice internet: la rete finalmente alle persone, su un'interessante iniziativa, misto di divulgazione e spettacolo, per diffondere Internet in Italia.
28 settembre: Poker Online: una nuova passione: gli skill game, i giochi di abilità, arrivano sul web e sarà possibile giocare a poker davanti al proprio computer.
Vi terrò aggiornati sull'uscita di mie nuove fatiche.

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domenica 28 settembre 2008

New Deal


Signori, si cambia.
Dopo più di un anno di sporadiche pubblicazioni, dopo silenzi di mesi, ho deciso di rinnovare completamente Il giardino del MaGo. Basta con la riproposizione degli articoli pubblicati sulla carta stampata o su altri blog, a volte inadatti, per la loro lunghezza, a questo strumento di comunicazione.
Ho deciso di cambiare registro: da oggi, oltre a promettervi, scarsi e affezionatissimi lettori, una maggior presenza (e poiché non siamo in campagna elettorale non ho motivo di raccontare bugie), voglio darvi qualcosa di più e di diverso.

Quotidianamente leggo, per lavoro e per diporto, notizie provenienti dalle più diverse fonti e, visto il mestiere che faccio, buona parte di queste riguarda l'informatica ... ebbene, ho deciso di commentare qui quelle che mi colpiscono di più. Niente di nuovo o di particolarmente innovativo, visto che nella blogosfera italiana ci sono sicuramente centinaia di altri blogger che fanno la stessa cosa, ma non ho mai preteso di essere originale.
Spero di accontentare i miei lettori abituali e di "catturarne" di nuovi, perché è vero che scrivo per passione, ma sapere che c'è qualcuno che mi legge sicuramente mi stimola a continuare.
Ho cercato di dare una veste grafica un po' meno new age al blog, ho liberato i commenti, perché chiunque può farli senza registrarsi, vorrei stimolare la vostra partecipazione.
Ecco, adesso che ho dichiarato pubblicamente le mie intenzioni, non mi resta che iniziare a lavorare per mantenere le mie promesse.
A prestissimo!

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sabato 5 luglio 2008

Il Barone di Münchhausen

Per festeggiare il mio ritorno al Giardino del Mago, dopo più di quattro mesi di silenzio, vorrei evitare argomenti seriosi e soddisfare una curiosità che forse ha solleticato qualcuno dei miei soliti, affezionati, venticinque lettori.
Come tutti sappiamo, la terminologia riguardante i computer (e l'informatica in generale) è, in massima parte, in lingua inglese, oppure ne è traduzione più o meno letterale, o, ancora, deriva dall'idioma caro a Shakespeare e a Byron (forse, trattandosi di americani, sarebbe meglio parlare di Poe e Salinger, o di Cooper ed Hemingway).

Questo dà luogo a frasi dal suono esotico ed esoterico, come impostazioni di default, che possiamo tradurre, in modo molto semplice, con impostazioni predefinite, oppure, alla lettera, impostazioni per difetto, intendendosi, con tale frase, la mancanza (il “difetto”, appunto) di istruzioni diverse.
Un altro esempio? Database, parola che ha un suono sinistro, e che si può tradurre con base di dati, locuzione un po' contorta per definire un italianissimo archivio. Non siamo arrivati al livello di sciovinismo dei Francesi, che usano il souris (il sorcio), o degli Spagnoli che impugnano, senza provare alcun ribrezzo, il ratón ... no, noi Italiani, esterofili come siamo, usiamo imperterriti il mouse e, devo dire, ci troviamo benissimo.
Continuiamo con gli esempi: lo scanner, strumento che serve a trasformare un foglio di carta, contenente immagini o testo, in un file da usare sul computer, ha dato origine a una serie di neologismi, alcuni dei quali, mi si consenta, raccapriccianti: scannare, scansionare, scannerizzare. Un uso meno approssimativo della nostra lingua, forse, ci avrebbe permesso di scoprire, su un qualsiasi vocabolario, il verbo scandire. Cito, dal Dizionario De Mauro della lingua italiana, le definizioni “scandire: ... inform., telecom., sottoporre a scansione ...” e, di conseguenza, “scansione: ... inform., telecom., analisi o campionamento di un’immagine che si effettua scorrendo in una sequenza determinata gli elementi nei quali si vuole scomporre l’immagine e trasformando i parametri riscontrati in segnali analogici o digitali che possono venir registrati o trasmessi secondo le esigenze delle elaborazioni successive ...”, che mi pare una buonissima descrizione del lavoro che fa lo scanner.
Fatte queste premesse, soddisfiamo la curiosità di cui sopra. Con le parole boot o bootstrap (da considerarsi sinonimi), si intende la fase di avvio del computer, quella nella quale appare una schermata nera con scritte bianche, alle quali di solito nessuno presta attenzione, che indicano che le diverse periferiche del computer sono attive e pronte a entrare in funzione.
Un conoscitore dell'inglese può restare perplesso perché boot significa stivale, come ben sanno gli appassionati di film western: il cimitero di Tombstone (la cittadina della leggendaria “Sfida all'OK Corral”), infatti, si chiama Boots Hill, la “Collina degli stivali”. L'idea che boot, sia un qualche oscuro acronimo, come, ad esempio, Ram (che non è il montone, ma la Random Access Memory), cade miseramente se consideriamo, appunto, il sinonimo bootstrap, che altro non è che la linguetta che serve, appunto, a calzare gli stivali.
Ebbene, oggi vi voglio svelare il mistero che unisce stivali e computer, e, per farlo, vi parlerò del Barone di Münchhausen, ufficiale e nobile tedesco, vissuto nel Diciottesimo secolo. Il bizzarro nobiluomo era famoso, tra i suoi amici, perché, come si suol dire, le sparava grosse, tanto che un suo amico, Rudolf Erich Raspe, costretto a fuggire in Inghilterra per aver fatto un uso piuttosto disinvolto del denaro pubblico, e trovatosi in bolletta, decise di raccogliere in un libro le sue mirabolanti avventure.
Tra le facezie che il Barone raccontava, oltre a quella di aver volato a cavallo di una palla di cannone, che è forse la più famosa, vi era anche la pretesa di potersi librare in aria, sollevandosi per le linguette degli stivali.
Dal libro Baron Munchhausen's Narrative of his Travels and Campaigns in Russia, che Raspe pubblicò nel 1785, e dall'episodio citato del Barone che si solleva in aria tirandosi per gli stivali, nasce, probabilmente, la frase to pull oneself up by one's own bootstraps (oppure pull yourself up by your bootstraps). Il significato letterale di queste due frasi è, grossomodo, “sollevarsi attaccandosi alle linguette degli stivali”, che è operazione manifestamente impossibile da eseguire anche per un culturista dotato di una muscolatura degna di Mister Universo . La frase va intesa, ovviamente in senso non letterale ma figurato, come “riuscire a fare qualcosa facendo affidamento unicamente sulle proprie risorse”, in altre parole cavarsela da soli.
Ebbene, cari venticinque lettori, cosa fa il computer, dopo che abbiamo premuto il pulsante di accensione, se non “sollevarsi attaccandosi alle linguette degli stivali”? Una volta che abbiamo dato corrente il Bios (Basic Input Output System, sistema di base di immissione e emissione) contenuto nella Rom (Read Only Memory, memoria di sola lettura), inizia a eseguire una procedura, detta Post (Power-on Self Test, auto test all'accensione) che porterà al caricamento del sistema operativo nella Ram (Random Access Memory, memoria ad accesso diretto); al termine di queste procedure, il computer sarà pronto a funzionare e a esaudire tutte le nostre richieste, e avrà svolto tutte queste operazioni in modo assolutamente autonomo, senza alcun aiuto esterno.
Volete un consiglio per iniziare la giornata con un sorriso? Dimenticate le indigeste sigle che vi ho appena propinato e al mattino, quando accendete il vostro computer, immaginatelo che, come il Barone di Münchhausen, con grazia e levità aristocratiche, si sta sollevando in aria tirandosi per le linguette degli stivali ...

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domenica 24 febbraio 2008

Microsoft sposa l'interoperabilità


Il 21 febbraio Microsoft, nelle persone di Brad Smith (vice presidente), Steve Ballmer (CEO) e Ray Ozzie (capo degli sviluppatori), in una conferenza stampa ha rilasciato importanti dichiarazioni circa il suo futuro impegno per assicurare l'interoperabilità tra i diversi applicativi e i diversi formati. Questa apertura, come dichiarato da Brad Smith, è stata voluta per aderire alle decisioni della Corte Europea di Primo Grado del settembre scorso.
Il testo dell'annuncio, in italiano, è reperibile all'indirizzo http://www.microsoft.com/italy/stampa/comunicati_stampa/feb08/2102_interop.mspx
In risposta a questo annuncio il PLIO (Progetto Linguistico Italiano OpenOffice.org) ha diffuso una lettera aperta, che riporto di seguito:


“Benvenuta, Microsoft.
Oggi, sulla scorta del vostro annuncio, siamo pronti a collaborare con voi per la promozione dei formati aperti, per sostenervi in quello che per voi è sicuramente un percorso nuovo nell'area delle suite per ufficio. Siamo pronti a collaborare, ma saremo anche dei critici severi e inflessibili di fronte a ogni incertezza e a ogni sbandata. L'interoperabilità non ammette trucchi e mezze misure: è una scelta di parte, quella degli utenti.
Noi siamo più possibilisti della Commissione Europea, che ha sottolineato come questo sia il quarto annuncio Microsoft sull'argomento dell'interoperabilità, senza ricadute - fino a oggi - sulla strategia dell'azienda. Riteniamo opportuno sperare che questa volta, per diversi motivi - tra i quali la nostra opposizione costruttiva a una prematura approvazione del formato dei file di Office 2007, che continuerà se non verranno apportate tutte le necessarie modifiche - ci siano più probabilità che in passato perché le parole diventino fatti.
Allo stesso tempo, invitiamo le aziende che, insieme a noi, sostengono il formato ODF - e quelle che fanno parte della comunità OpenOffice.org: Sun, IBM, Novell e Red Flag - a lavorare per una piena interoperabilità, adesso che gli impedimenti tecnici e legali stanno per cadere, per consentire agli utenti di Microsoft Office di parlare in modo trasparente con quelli di OpenOffice.org, e viceversa. Chiediamo che l'industria del software, che non ha sede a Redmond, si impegni insieme a noi per far diventare ODF uno standard più diffuso.
Se questo succederà avranno vinto gli utenti, e insieme a loro il mercato”.


Come leggere questo annuncio di Microsoft? Laooconte, di fronte al cavallo di Troia, per opporsi al suo ingresso in città, pronunciò la famosa frase “timeo Danaos et dona ferentes” (temo i Greci anche quando portano doni), e la storia sappiamo tutti com'è andata a finire.
Anche l'apertura di credito del Plio mi sembra non illimitata, e la Commissione Europea si fida piuttosto poco, sottolineando che altri analoghi annunci, in passato, sono stati disattesi alla prova dei fatti.
L'annuncio. poi, capita a pochi giorni dalla sessione dell'ECMA di Ginevra nella quale si discuterà se accettare o meno il formato OOXML di Microsoft come standard documentale, al pari di ODF, del consorzio OASIS, quindi, a mio parere, è uscito con una tempistica quasi perfetta.
Forse Microsoft si è resa veramente conto che il futuro è nei formati aperti e nell'interoperabilità verso tutti, forse è una mossa strumentale per ottenere il sospirato standard ISO per un formato che ha oltre 6000 pagine di specifiche (quasi dieci volte di più del concorrente ODF, che ha ottenuto il riconoscimento come standard ISO 26300 quasi due anni fa), forse è una mossa per condizionare le comunità e le aziende che promuovono e sostengono il software libero e i formati aperti. Credo che solo il tempo potrà sciogliere questi dubbi.


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martedì 22 gennaio 2008

The SUN also rises

Il 16 gennaio si è diffusa la notizia che SUN Microsystem ha acquistato MySQL AB per la modica cifra di un miliardo di dollari. Nessun titolone su nove colonne, nessuna eco particolare, almeno fino a oggi (18 gennaio), se non la semplice notizia, spesso commentata con pochissime righe.
Dopo averla letta ho iniziato a riflettere su quelle che sono le possibili conseguenze di questa operazione e mi sono reso conto che potremmo essere di fronte a un fatto epocale, destinato ad avere parecchie, e importanti, conseguenze.

MySQL è la “M” dei server LAMP (Linux, Apache, MySQL, PHP) che gestiscono una fetta importante del World Wide Web e vanta, cifre fornite da MySQL stessa, circa undici milioni di installazioni, Il prodotto è maturo, affidabile, potente, anche se qualcuno gli preferisce PostgreSQL, che, però, mi risulta avere una base installata meno ampia. Insomma, SUN ha fatto, nonostante l'esborso economico, un ottimo affare, qualificandosi come uno dei maggiori protagonisti (se non il maggiore in assoluto) del mondo Free/Open Software: concentra adesso nelle sue mani Open Solaris, Java, OpenOffice e Mysql, più altri prodotti e iniziative minori.
Non credo che punterà a sostituire Linux con Solaris nei server LAMP sopra citati, operazione a mio avviso rischiosa: perché andare a cambiare qualcosa che già funziona, e molto bene? Credo, piuttosto, che nel medio/lungo periodo SUN, Ibm e Google, i maggiori contributori al progetto OpenOffice, sapranno trarre il massimo da questa acquisizione.
Riflettiamo un momento: cosa manca a OpenOffice per essere alla pari, se non superiore, al concorrente di casa Microsoft? Un motore di database credibile. Quello attuale (HSQL) non gode di buonissima fama e appoggiarsi a motori di database esterni non è, forse il massimo dell'efficienza, anche se Base permette la massima libertà di scelta in tal senso.
Cerchiamo di immaginare un OpenOffice che usi, come motore di database predefinito, MySQL o una sua versione ridotta: a questo punto gli sviluppatori potrebbero concentrarsi solo sull'interfaccia e potrebbero dar vita a uno strumento di gestione degli archivi assolutamente straordinario. Access, infatti, come motore di database non regge assolutamente il confronto con MySQL, ma ha un'interfaccia grafica (almeno fino alla versione 2003, mi dicono che la 2007 è praticamente inusabile) assolutamente di prim'ordine. OpenOffice con MySQL potrebbe essere uno strumento di office automation privo di concorrenza, forse persino ridondante rispetto a quelle che sono le esigenze di un database da desktop.
Forse questa acquisizione è giunta troppo tardi per poter vedere qualcosa nella prossima major release di OpenOffice (la 3.0, prevista per la primavera/estate di quest'anno), nella quale sarà integrato Thunderbird come Personal Information Management, per gestire posta, impegni, rubrica e informazioni personali (una sorta di Outlook in salsa Mozilla), ma credo che la versione 4.0 potrà presentare interessanti novità nel senso da me auspicato.
A questo punto anche i prodotti derivati (Simphony di Ibm e Google Docs della casa di Mountain View) avrebbero a disposizione un dbms assolutamente di prim'ordine, con conseguenze facilmente immaginabili.
Questa mia è solo un'analisi a caldo, destinata forse a essere smentita dalle notizie e dai commenti dei prossimi giorni, ma credo (spero) di non averla sbagliata.
In conclusione, forse siamo di fronte all'atto iniziale del primo, vero, serio attacco alla supremazia di Office come software di produttività personale ... staremo a vedere.

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domenica 13 gennaio 2008

RFID, informazioni in onda


Nel mese di luglio del 2007, il Ministero delle Comunicazioni, con un suo decreto, e grazie alla collaborazione del Ministero della Difesa, ha liberalizzato le frequenze UHF comprese tra 865 e 868 MHz, destinandole ad applicazioni RFID per uso civile. Gli addetti ai lavori hanno accolto la notizia con grande entusiasmo, affermando che, adesso, l’Italia si è finalmente portata al livello degli altri paesi europei.
Leggo una certa perplessità nei vostri occhi e prevengo la prossima domanda (probabilmente del tipo “Ma che ce ne importa?” o qualcosa del genere): l’acronimo RFID sta per Radio Frequency IDentification, in italiano “Identificazione a Radiofrequenza” e indica una nuova tecnologia che, in effetti, tanto nuova non è. Come spesso succede, infatti, deriva da un’applicazione militare risalente, addirittura, alla Seconda Guerra Mondiale, quando i dispositivi di identificazione a radiofrequenza permettevano di riconoscere gli aerei e le navi amiche. Dal campo militare, poi, negli anni Sessanta del secolo scorso la tecnologia passò ai grandi magazzini, quando ad alcuni articoli erano applicati dispositivi antitaccheggio che, se non disattivati, provocavano un segnale d’allarme al tentativo di far uscire l’oggetto non pagato dal negozio.

La miniaturizzazione, poi, ha prodotto apparati trasmittenti sempre più piccoli, dell’ordine di pochi centimetri quadrati, magari ricavati su etichette autoadesive, e sprovvisti di fonti di energia autonome.
Questi apparati trasmittenti, detti tags o trasponder, trasmettono le informazioni che contengono ad appositi lettori, i reader.
Come è fatto un trasponder? In poche parole è costituito da un microchip, che contiene le informazioni, e può, in certi tipi, comprendere anche un’antenna e una fonte di energia (una batteria, ad esempio). In questo caso si parla di trasponder attivo, perché trasmette autonomamente le informazioni al reader. Per ridurre i costi di realizzazione dei tags, però, è possibile fare in modo che si attivino solo in presenza del lettore e che traggano l’energia necessaria al proprio funzionamento da un campo elettromagnetico prodotto dal lettore stesso: questi sono i cosiddetti trasponder passivi.
Possiamo identificare diverse tipologie di apparati di identificazione anche in base alle modalità di attivazione: avremo così trasponder attivabili, se entrano in funzione solo se stimolati dal lettore. Mai visti? Scommetto di sì … un trasponder attivabile è il Telepass: avete presente quel “bip” che si sente quando ci si avvicina al varco? È l’apparato che entra in funzione; a questo punto si alza la sbarra, il veicolo passa e si sente un nuovo “bip” a segnalare che il nostro Telepass si è disattivato e il sistema ha rilevato, e memorizzato, il passaggio.
Altri apparati trasmittenti, invece, sono a tempo: si attivano, e trasmettono le informazioni, a intervalli predefiniti. Si usano, soprattutto, quando si vuole monitorare costantemente la posizione del trasponder mediante triangolazione: in pratica, si legge la distanza dell’apparato da almeno tre antenne poste a delimitare un perimetro: questa descrizione, forse, ricorderà qualcosa agli appassionati di film e telefilm polizieschi.
Continuiamo con gli esempi e torniamo alla possibilità di avere trasponder di ridottissime dimensioni: questi oggetti possono, veramente, essere applicati a tutto. I passaporti elettronici (e-passport) sono, ormai, una realtà acquisita da quando, nel 1998, furono adottati dal governo malese: il tag RFID contiene, oltre ai dati dell’intestatario, anche la cronistoria dei suoi viaggi all’estero. Paesi come Regno Unito e Stati Uniti hanno iniziato a usare questo tipo di documento nell’ambito della lotta al terrorismo, perché più difficilmente falsificabile.
Come tutti sappiamo, uno dei mezzi di pagamento più usati è il cosiddetto “denaro elettronico”: chi non ha in tasca bancomat e carta di credito? Gli osservatori più attenti avranno notato che sulle tessere di emissione più recente fa bella mostra di sé un piccolo chip, che altro non è che un trasponder. Tesserini e badge RFID per la rilevazione delle presenze sono largamente usati sia nel settore privato che in quello pubblico; a volte si usano anche come strumenti di autenticazione e di identificazione per l’accesso ai sistemi informativi, accanto a quelli più tradizionali a banda magnetica.
I cosiddetti microchip, poi, sono usati anche per l’identificazione degli animali domestici: ad esempio, il tradizionale tatuaggio dei cani può essere efficacemente sostituito dall’inserimento sottocutaneo di un trasponder.
Dell’uso come dispositivi antitaccheggio abbiamo già accennato: a tutti è capitato, ad esempio, di entrare in una libreria e di vedere l’addetto alla cassa passare i nostri acquisti su una piastra metallica. Lo scopo di questa operazione è quello di disattivare il tag RFID e di permetterci di andarcene senza far strillare i sistemi di sorveglianza alle uscite. A volte, negli autogrill o nei megastore, vediamo che, sulla confezione dell’oggetto che abbiamo intenzione di acquistare, c’è un’etichetta col codice a barre … niente di strano, se non che è in rilievo … ebbene, siamo in presenza di un sistema RFID.
Già, perché questi aggeggi a radiofrequenza possono essere abbinati a sistemi di trasmissione delle informazioni di tipo più tradizionale, quali, appunto, i codici a barre e le bande magnetiche. La tecnologia RFID è superiore a entrambe perché il trasponder non deve essere visibile, come il codice a barre, e non deve essere letto per contatto, come la banda magnetica che, a lungo andare, si deteriora … a tutti è capitato che il bancomat si sia smagnetizzato all’improvviso o la carta di credito sia stata dichiarata non leggibile. Nel tag, inoltre, possono essere contenute informazioni crittografate, e quindi si ha un livello di sicurezza maggiore, e le operazioni di lettura e verifica si svolgono in frazioni di secondo.

Le applicazioni sono potenzialmente infinite: particolarmente interessanti, per noi, sono quelle relative alla logistica. Tags possono essere applicati a container, pallets, scatole, permettendo, così, la tracciabilità dei carichi, ma anche a tessere d’abbonamento (ad esempio il sistema Navigo che permette di usare i trasporti pubblici dell’area parigina … l’abbonato sale sull’autobus, ad esempio, e passa la tessera davanti a un apposito lettore, senza la necessità di convalidare il biglietto o di mostrarlo al conduttore) e a bagagli: l’aeroporto di Dallas, che ha abbandonato le etichette con codici a barre a vantaggio di quelle a radiofrequenza, ha visto aumentare di gran lunga l’efficienza delle procedure di smistamento e restituzione delle valige.
Nei magazzini, poi, l’uso di tags RFID permette di ridurre gli errori nei prelievi e di sveltire enormemente i tempi necessari per gli inventari, perché un lettore è in grado di leggere più trasponder contemporaneamente. Il sistema, poi, consente di conoscere sempre i livelli di giacenza e di gestire al meglio i riordini degli articoli scesi al di sotto della soglia di scorta minima.
Insomma, la tecnologia RFID ha un grande futuro, anche se non mancano le perplessità legate, soprattutto, alla tutela della privacy: un reader, infatti, potrebbe leggere le informazioni contenute in un trasponder non disattivato, oppure potrebbe essere possibile tracciare i movimenti di chi indossi, ad esempio, un abito dotato di tag RFID.
Non sono trascurabili, poi, nemmeno i rischi per la salute: le onde elettromagnetiche, anche se a livelli di frequenza e potenza molto più elevati di quelli usati dai dispositivi RFID, infatti, sono agenti potenzialmente mutageni, cioè possono provocare l’insorgere di mutazioni.

Adattamento di un articolo pubblicato sul numero di settenbre 2007 della rivista “Porto e Diporto” della AM editori Srl - Napoli


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